L’implosione

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estate 2011 226 (2)

di Vincenzo Frungillo

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La barca per Spinalonga salpa dal porticciolo di Plaka, un piccolo paesino di pescatori sorto in un’insenatura dell’isola di Creta. Dopo una breve navigazione, raggiungiamo il promontorio di terra disteso sul mare. Una breve salita mi porta all’ingresso di una roccaforte in pietra. Lo stemma della Repubblica è ancora visibile sull’arco che sovrasta la vecchia porta della fortezza. Il tempo ha corroso il bassorilievo, ha cancellato il viso del leone, non si riconoscono più i suoi occhi, se ne intravede appena la criniera. Nessuna immagine ha acquisito un valore allegorico più preciso di questo: sull’isola è rimasto ben poco dell’avvicendarsi di culture e popoli, quello che fu un avamposto dell’impero turco, poi della repubblica di Venezia, è diventato un lazzaretto per i malati di lebbra. Qui il potere è imploso e la corruzione della carne è diventa ai miei occhi l’eziologia di una malattia comune.

Sono molti i turisti che salgono le stradine della fortezza, visitano il paesino di roccia che ospitava i malati, sbirciano nella vecchia farmacia. Una delle case in pietra è sede del museo dell’isola. Ci sono foto in bianco e nero che immortalano i medici, gli infermieri, i pazienti, i preti ortodossi; è possibile leggere le loro vicende, ripercorrerne la vita. Quella più significativa è la vicenda di Epaminonda, uno dei pazienti dell’isola; era cieco, aveva il corpo segnato dalle infiammazioni, le dita erano ridotte a moncherini, vestiva con abiti scuri e portava occhiali da sole per coprire le pupille vuote, sapeva cantare con voce da basso tenore, il suo canto intratteneva tutti durante le cerimonie. Leggo dalla didascalia sotto la sua foto: “Aveva solo 21 anni quando fu rinchiuso nel lebbrosario di Spinalonga, e rimase sull’isola fino a quando la colonia non fu chiusa nel 1957. Dopodiché fu curato presso l’ospedale Agia Varvara di Atene. Durante tutta la sua esistenza si è battuto con passione per migliorare le condizioni di vita dei lebbrosi“.

epaminonda

 

Osservo la foto e immagino Epaminonda intonare versi con atteggiamento compassato da vecchio crooner, lo sento ricordare con tono enfatico il generale tebano che gli ha dato il nome.

.

In ogni nome c’è una profezia,

il mio è ispirato al generale

che inventò la falange obliqua,

Senofonte ne celebra le vittorie,

Cicerone ne ricorda la morte,

il corpo trafitto dalla lance,

il dolore che diventa dolce.

Epaminonda. Gridarono i soldati

alla vista del generale

finito nella polvere.

Ma io non combattevo battaglie,

avevo una voce da basso tenore

che sfoggiavo nelle cerimonie,

m’immaginavo come un esercito

che lavora ai fianchi le donne,

cercavo le note in un punto del cielo,

amavo la vita caotica d’Atene.

Una notte ho sentito la bocca tremare,

ho perso fiato, ho stonato,

il cielo mi è cascato addosso,

è diventato un drappo nero,

che non ho più tolto,

perché mi vergogno per le ferite che porto.

Quando il sole è basso,

esco all’aperto, raggiungo le mura,

la vecchia fortezza, alzo il velo,

mi mostro all’Egeo,

riposo sotto il vessillo,

il leone che resiste alle rovine,

penso che tutto sia destinato a finire:

la Grecia antica, Bisanzio, i turchi,

la Repubblica, mangiati dal tempo,

come la mia carne dalla lebbra *.

 

(* Questi versi fanno parte della drammaturgia teatrale su Spinalonga)

Potrebbe essere il soggetto per una messa in scena, una drammaturgia sulla corruzione, penso. In particolare ora che l’Europa, in nome del mercato, accelera l’opera di spoliazione dell’Occidente. Potrebbe essere una versione, storicamente documentata, sulla fine di una certa idea di cultura.

Aspetto che le massa dei turisti abbandoni l’isola, aspetto che tutti vadano via. Mi siedo tra le pietre dell’ acquartierato. Le cose ritornano in se stesse, identiche solo a se stesse. Proprio ora, nel punto estremo dell’abbandono, ha fine la decomposizione.

Sono nella mia stanza, seduto alla mia scrivania, confondo la voce con quella di Epaminonda, cerco di scrivere un soggetto teatrale dedicato a lui e all’isola di Spinalonga. Un mosca cerca la luce nel vetro, confonde l’origine e la superficie. Sembra essere gravida di larve, da lei verrà fuori nuova vita. Risento spalancarsi la forra che separa la parola e la cosa. Devo descrivere ancora una volta ciò che vedo.

 

Terra, terra, terra.

Posso gridare per ore

mentre l’isola spezza le onde.

 

Terra, terra.

Nessuno risponde,

solo il fascio di luce che illumina forme.

 

Resterò qui per sempre,

resto qui per sempre,

diviso in due dalla corrente.

 

Non mi specchio,

non mi specchio per niente.

Non ho pazienza,

 

non credo nella scienza delle attese.

Cosa sperimentare ancora,

non esiste cura, sanatoria.

 

E allora, cosa?

La domanda ci lega ad una parola

-cosa- la nostra sola risposta.

 

Afona la vendetta,

mi lascia la carta che assorba

quanto mi porta l’insonnia.

 

-Per ora, per ora,

ricorda gli studi, gli analitici primi,

ricorda la lotta,

 

la scelta di restare,

tacendo,

l’esilio interno.-

 

Questo mi spetta.

S’arresta la linea del tempo,

la sua grana sottile si scioglie, m’accoglie.

 

Rientro nella faglia animale.

Una mosca che annaspa sul vetro

porta in grembo il suo parto.

Se ne schiaccio il corpo,

si spandono, strisciando,

come fossero molluschi di scoglio,

senza guscio, cassa, riparo,

le sue larve sul pavimento.

Mi aggrappo a questo e scopro

che è scissa la faglia in cui m’innesco.

Produce larve ciò che tocco,

solo se sto fermo

imputridisce il mondo.

-Ogni oggetto o animale

è una costante

col suo fattore esponenziale-

Questa sedia, ecco questa sedia,

è la sua immagine,

ma è anche “la mia sedia”,

che uso quando siedo

per annotare i pensieri

che ora sto scrivendo,

allora assume senso,

ma la sedia rientra nel suo mistero,

solo quando la penso nell’insieme

della sua astrazione e del suo esser mezzo.

Allora si rinnova la sua funzione,

mentre ringiovanisce la mia morte,

e la mosca che schiaccio

è già in sé tutte le sue larve.

 

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